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Sono qui, davanti al nostro grande camino, pronto ad intraprendere un nuovo viaggio. In tutti questi anni ho lasciato che questa fosse la mia ultima tappa prima di prendere i bagagli ed affidare alla lontananza la mia speranza di riuscire a sopportare meglio il nuovo corso degli eventi, per poi accorgermi sempre che la consapevolezza di ciò che era accaduto non si lasciava confinare dietro un portone. Questa stanza era ormai dentro di me, e del suo uscio spalancato avevo perso definitivamente la chiave. Non sarebbe bastato mettere delle distanze tra me ed i nostri luoghi quando la sofferenza era ormai tatuata nel mio cuore, e quel segno lo faceva pulsare al ritmo del dolore. Quel dolore che era sempre pronto ad urlare, ogni volta che non sembravo dargli soddisfazione. L’ho portato sempre con me, come un bagaglio invisibile ed intimo ma più ingombrante delle valigie che usavo. L’unico di cui non mi riuscissi a liberare, il solo che non poteva andare smarrito, perché ero io ad essermi ormai smarrito in esso. Per anni mi sono seduto su uno dei divani, con il tuo ritratto tra le mani, e nel vuoto ingombrante della tua assenza ho lasciato che la mia voce falsamente entusiasta ti raccontasse quello che avrei visitato e di cui poi ti avrei raccontato, affidando le mie impressioni a queste pagine che, oggi come allora, si sono offerte di farmi da tramite per riunirmi idealmente a te. Mi sono lasciato andare ad una piccola abitudine che mi permettesse di rivivere un po’ di normalità nel posto che più di tutti mi ricordava che la normalità non era più una condizione che mi apparteneva.

Che mi ricordava che tutte le nostre abitudini erano andate perdute, che quella voce che io cercavo non mi avrebbe potuto rispondere, che quel ritratto che stringevo tra le mani sarebbe rimasto per tanto tempo il mio unico sollievo, silenzioso come lo era diventata la stanza in cui mi trovavo. Un silenzio che era solo frutto della visione che scaturiva dai miei sensi offuscati dalla sofferenza, perché nella realtà non è mai esistito. Queste pareti non hanno smesso di essere testimoni di scene di vita quotidiana che vedevano come protagonisti gli altri membri della nostra famiglia, che hanno sempre usato questo grande camino per radunarsi tutte le sere per le normali conversazioni, in cui sono stato spesso coinvolto, soprattutto quando si faceva più vivo il desiderio di ricordarti tutti insieme, per alleggerirci a vicenda il peso della tua mancanza. Quelle riunioni, però, non bastavano mai. La stanza in cui mi trovavo era comunque vuota ai miei occhi, ed il silenzio era l’unico suono che vi rimbombava, facendo male alle mie orecchie. Tra tutte quelle risate non c’era l’unica che per me avrebbe reso allegre quelle pareti; tra tutte quelle voci non riconoscevo la sola che non mi sarei mai stancato di ascoltare, che arrivava dritta alle corde del mio cuore per farle vibrare in quella delicata melodia che da troppo tempo aveva lasciato il posto ad una sola tetra nota che si chiamava dolore ed in me e nel mio tormento trovava il suo teatro e la sua rappresentazione. Mancava quell’unico sguardo che lì avevo sempre trovato e che, ormai perso, ho sempre cercato invano nel corso di questi anni, pur sapendo che non avrei mai potuto trovarlo da nessuna parte. Eppure ho continuato a farlo, in maniera illogica ed irrazionale. Lo era anche il fatto che ti avessero portata via, pensavo, eppure era accaduto. Ed allora anche io avrei potuto trovare ancora per un attimo i tuoi occhi, da qualche parte, mi dicevo illudendomi.

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